Inizio del Calcio in Italia


Ció che avvenne all'inizio


Se vi trovate dalle parti del “Luigi Ferraris” con sufficiente anticipo rispetto all’inizio della vostra sospirata prima volta nello stadio più bello d’Italia, se pensate che le storie sul proverbiale carattere irsuto degli autoctoni siano chiacchiere, se la temperatura è mite e la tramontana invernale è sopportabile, potete volgere le spalle allo stadio e farvi accompagnare dal tramonto verso il mare. Passerete oltre il Bisagno e prenderete via Montaldo, girerete attorno a piazza Manin e imboccherete la lunga e gradevole via Assarotti, che tanto è tutta discesa. Quando già scorgerete il bel monumento equestre a Vittorio Emanuele II che è l’attrazione principale di piazza Corvetto, fate attenzione alla vostra destra: c’è una stradina, via Calatafimi, che porta a un’altra piazzetta, Piazza Marsala. Magari fermatevi per un aperitivo al Beautiful Loser, un posto vagamente hipster che certamente non passa inosservato, già a cominciare dal nome che porta. È in inglese, e fa riferimento a una sconfitta – si parla forse di calcio? Chi lo sa; quel che è certo è che poco distante c’è via Palestro, siamo nel quartiere Castelletto e non fatevi distrarre dalla vista, pur notevolissima, sui tetti della città. Dritti al numero 10 per finire davanti a un palazzone di mattoni rossi colmo di studi legali, compagnie assicurative e altri locali che a fine Ottocento venivano comunemente chiamati “scagni” (uffici).

 

Qui in pieno centro, all’interno 4, nell’indifferenza dei genovesi, il 7 settembre 1893 dieci inglesi si sono dati appuntamento nelle stanze del consolato di Sua Maestà la Regina Vittoria per formalizzare finalmente ciò che è pratica già da un anno abbondante: un’associazione di cricket e atletica leggera che si chiamerà proprio come gli inglesi chiamano quella città che da tanti anni è diventata casa loro. Dall’ultima sillaba salta la lettera v, rimangono le altre cinque: Genoa.

 

Questi posti davanti al mare

La storia di ogni squadra di calcio è la storia di un luogo. Non fa eccezione Genova, che non diventa certo casualmente la prima città scudettata d’Italia. Nell’ultimo decennio del Diciannovesimo Secolo sta vivendo un periodo bellissimo: nel 1892 è stato fondato quello che diventerà il Partito Socialista ed è stato celebrato il quattrocentesimo anniversario di una scoperta geografica di discreta importanza di cui è responsabile un loro illustre concittadino nato in una casa di via di Porta Soprana, un chilometro a piedi da via Palestro. Le “Colombiane” sono state un’occasione, sfruttata in pieno con attrazioni, ospiti internazionali e strade gremite di gente, per ribadire la centralità di Genova nel frastagliato panorama nazionale. Grazie alla politica protezionista della sinistra liberale al governo, hanno aperto grandi poli siderurgici, cantieri navali e linee di navigazione; il porto di Genova è diventato il più importante d’Europa, tappa obbligata per tante compagnie straniere dirette al canale di Suez. Navi, naturalmente, piene di inglesi, che nei giorni di scalo ingaggiano furibonde partite di football tra connazionali.

 

Il Secolo XIX, quotidiano fondato nel 1886, annuncia festante la celebrazione delle Colombiane. Nell’epoca in cui i quotidiani italiani erano fatti di sole quattro pagine, il Secolo fu il primo ad aumentare la foliazione a sei pagine.

D’altra parte, la connessione tra la Liguria e gli inglesi non è solamente economica. Nel 1855 ha avuto successo un romanzetto sentimentale, “Il dottor Antonio”, pubblicato in inglese ma scritto da un patriota italiano, Giovanni Ruffini, con il nobile intento di far conoscere al mondo le bellezze italiche. Trama svenevole quanto basta: una nobildonna inglese, in vacanza con suo padre, ha un brutto incidente in carrozza nei pressi di Bordighera e si rompe una gamba; la soccorre un dottorino del posto che si prende cura di lei nelle settimane a venire, innescando una struggente e impossibile relazione che manda in brodo di giuggiole il pubblico di metà Ottocento. La natura fa il resto: moltissimi intellettuali e aristocratici dell’epoca visitano i luoghi del romanzo e scoprono la bellezza climatica e paesaggistica della Liguria. Vacanze, svago e relax vogliono dire anche sport, oggi come allora: proprio a Bordighera viene fondato il primo circolo tennistico italiano (1878). Entro la fine del secolo a Genova approderà anche la formidabile invenzione dei fratelli Lumière: il 30 maggio 1896 la proiezione del celebre “Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” spaventa il pubblico della sala Sivori, accanto al Palazzo del Governo, a oggi l’unico cinema italiano ancora esistente che sia stato aperto nell’Ottocento.

 

Citiamo i nomi dei dieci fondatori del Genoa con la consapevolezza che solo a due o tre di loro è spettato un posto nella storia. Il primo presidente è Charles De Grave Sells, di professione designer, che manterrà l’incarico fino al 1897. Poi c’è George Blake, che nel 1900 si trasferirà a Palermo e contribuirà alla fondazione del club rosanero. Poi tre signori di cui si conosce a malapena il cognome: Green, Rilley, Sandys. Un inglese di origine francese, Henry de Thierry, nato a Lucca da famiglia nobile. Un padre e un figlio, Jonathan Summerhill senior (vicepresidente) e Jonathan Summerhill junior. Poi sir Charles Alfred Payton, console di Genova appena da cinque mesi dopo aver vissuto in Marocco, primo “patron” della società. E infine George Dormer Fawcus, il più importante della combriccola. Da semplice co-fondatore e capitano della squadra di cricket, diverrà presidente (dal 2 gennaio 1899) e poi anche ala sinistra che a 41 anni vincerà lo scudetto del 1900: di certo il primo e unico caso di presidente-giocatore della storia del calcio italiano. «Alto, tarchiato, bell’uomo e bell’atleta, allegrissimo, rapitore di cuori e di palloni, fulminatore di porte e di petti. Faceva il presidente con sobria disinvoltura, riuscendo a tener linea e stile pure in quel clima di affettuosa familiarità che si respirava allora nel Genoa. Strani e bei tipi questi britannici»: così lo descrivevano nel 1947, nel libro Questa è la storia del Genoa, i giornalisti Aldo Merlo e Renato Tosatti. Quest’ultimo, papà di Giorgio, morirà due anni dopo sulla collina di Superga.

 

Tutti i loro nomi compaiono sull’atto di fondazione che nei decenni è passato di mano in mano, anche mani importanti come quelle di Gianni Brera, tifoso rossoblù che non si è mai nascosto. Alla morte del giornalista, la famiglia ha riconsegnato l’originale al Genoa che oggi lo espone nel proprio Museo al Porto Antico, dove si trova anche il pallone della finale del primo campionato. Ma prima di arrivare a parlare di calcio, dobbiamo ancora presentarvi un paio di persone.

 

 

L’Atto di Fondazione del Genoa Cricket & Athletic Club.

Un Medico

Il gruppo di inglesi individua come terreno di gioco e di allenamenti atletici e cricketistici la Piazza d’Armi del Campasso nella brulicante cittadina di Sampierdarena, allora “la Manchester d’Italia”, oggi un sobborgo di Genova che l’ha inglobata nel 1926, dopo oltre otto secoli di orgogliosa autonomia. Il terreno appartiene a John Wilson e Alexander McLaren, due imprenditori scozzesi amici di Fawcus, titolari di una fonderia; non è molto più che un prato verde di buone dimensioni. Si gioca di sabato, e dopo le partite tutti a gozzovigliare dalla Gina, locandiera di un’omonima trattoria nei paraggi. Oggi il terreno appartiene alle Ferrovie; curiosando su GoogleMaps non si trovano che binari.

 

Intanto a Sunderland, mille miglia più a nord, una società di assicurazioni marittime invia a Genova un medico di 29 anni con il compito di dare assistenza sanitaria ai marinai impiegati sulle navi carboniere britanniche. Il suo nome è James Richardson Spensley e la storia confermerà che è uomo di multiforme ingegno: estremamente colto, bibliofilo e filantropo, conosce il sanscrito e il greco, sa interpretare i geroglifici, studia le religioni orientali ed è corrispondente del Daily Mail. Come mai da Sunderland mandano in Italia proprio lui? Una risposta potrebbe essere quella che ha dato Mauro Ghigliotti nel libro di Fabrizio Caizia “1001 storie e racconti sul Genoa”: «In quel periodo mio zio Fausto, titolare di una ditta di spedizioni, si trovava in Inghilterra e non so come, ma fu grazie a lui che Spensley si trasferì a Genova». Ai fini della nostra storia ci basti sapere che gioca a calcio, soprattutto come portiere, ruolo che esalta il suo fisico imponente. Per quanto artigianale, anche la tecnica sembra di tutto rispetto, stando al profilo tracciato vent’anni dopo dal giornalista (e futuro presidente del Milan) Emilio Colombo su Lo sport illustrato e la guerra: «Si dirigeva verso i pali di un goal, deponeva in un angolo un cartoccio di pece greca e saltellando attendeva l’inizio del giuoco badando di ben bene ingiallirsi le mani e le braccia colla polvere attaccaticcia. Sembrava un uomo maturo, lento nei movimenti, invece giuocava bene, era agilissimo, fortissimo. Un preciso colpo d’occhio; un’ottima presa, un sicuro coraggio. Fu il primo ad insegnare ai nostri portieri la respinta – specialmente in “melée” (in mischia, ndr) – di palloni alti colle due braccia tese in avanti e le due mani serrate una all’altra».

 

La pece greca – altrimenti detta colofonìa – è una sostanza usata soprattutto in musica, per favorire l’attrito dell’archetto sulle corde degli strumenti ad arco, e in danza come antiscivolo da passare sulle scarpette. Il fatto che Spensley la usasse per migliorare la presa ci fa capire a che livello – per così dire – di professionismo ambisse già nel 1897. La sua compagnia lo ha sistemato in un appartamento dell’Hotel Union, al numero 9 di Piazza Campetto, dove nel 1977 il Comune apporrà una targa visibile ancora oggi. Contrariamente ai luoghi comuni sui britannici, Spensley non ha alcun istinto di isolamento; vive la città, si fa benvolere, alla sera tiene dei corsi di alfabetizzazione per venditori di fiammiferi e giornali. Il soprannome in dialetto che gli dedica la città – “U mêgu ingleise” (il medico inglese) – vale più di mille parole. E si dà un gran da fare anche all’interno del Genoa, imponendo che il calcio arrivi allo stesso livello di considerazione del cricket. Contatta personalmente gli equipaggi dei vari bastimenti britannici che transitano da Genova e con loro organizza le prime partitelle. È portiere, allenatore e dirigente esecutivo: proprio come i CEO di oggi si interrogano pensosi sulle opportunità degli impianti di proprietà, Spensley ritiene insufficiente il terreno di Sampierdarena e bussa alla porta di George Davidson, un altro mecenate scozzese di stanza a Rapallo: imprenditore appassionato di ciclismo, ha fondato nel 1877 la polisportiva Cristoforo Colombo che si diletta con la bicicletta, la ginnastica e altre discipline open-air. C’è un vecchio velodromo in disuso, con vista sul torrente Bisagno, che può trasformarsi in campo da calcio: possiamo affittarvelo, suggerisce Davidson a Spensley, e il nuovo stadio è cosa fatta. Si trova nel quartiere di Staglieno, accanto al Ponte Carrega. Ci sono i pali, la traversa e poco altro: una semplice corda tesa separa il terreno di gioco dagli spettatori. Di spogliatoi neanche a parlarne: i giocatori arrivano al campo già vestiti, limitandosi ad abbandonare i rispettivi cappotti dietro le porte. Qui, il 6 gennaio 1898, è stata scattata la famosa foto di Spensley portiere, barba, camicia bianca con maniche arrotolate, pantaloni alla zuava: il simbolo degli anni pionieristici del calcio genovese, e per estensione del calcio italiano.

Il foot-ball è ancora lontano dal potersi considerare sport nazionale. Il 15 marzo 1897 la Gazzetta dello Sport (che ancora non è rosa, ma di colore verde pallido) compila una lista delle varie discipline ordinate per importanza e il calcio è solo quindicesimo, alle spalle di “ciclismo, ippica, scherma, ginnastica, caccia, tiro a segno, tiro a volo, canottaggio, yachting, alpinismo, sport pedestre, automobilismo, pattinaggio, lawntennis”. Ma il 10 aprile Spensley fa un altro passo in avanti. L’Assemblea dei Soci del Genoa approva la sua mozione che lascia entrare nel club anche soci italiani fino a un massimo di cinquanta, purché di madre inglese o di origini svizzere. L’unica eccezione riguarda proprio l’italiano doc Fausto Ghigliotti (stai a vedere che suo nipote aveva ragione…). La curiosità dei genovesi intorno a questo sport di marinai è sempre maggiore e procede di pari passo con le cronache che arrivano soprattutto da Torino, dove si susseguono confusamente voci di nuove società fondate e poi sciolte o accorpate: il Torino Football & Cricket Club (1887), i Nobili Torino (1889), l’Internazionale Torino (1891), la Torinese (1894)… Il concetto di derby è ancora di là da venire, ma intanto in città il Genoa trova una gradita avversaria nella Pro Liguria, fondata nel 1896: maglia a strisce biancoverdi e calzoncini neri, ha giocatori quasi tutti provenienti dal vicino comune di Bolzaneto. Sfortunatamente per loro la rivalità non ha molta ragion d’essere, visto che nei rari incroci con il Genoa le prenderanno sempre sonoramente.

 

La popolarità del Genoa valica i confini regionali e arriva fino a Torino, dove parte l’invito per partecipare a un quadrangolare con tre società della città, fissato per fine ottobre. Ma uno slittamento improvviso di 24 ore costringe il Genoa a disertare l’appuntamento, rimandato all’anno nuovo. Il calcio italiano è ancora giovane e scalpitante, vive di entusiasmi e dev’essere temperato con l’arte dell’attesa e della pazienza. In quelle stesse ore e in quelle stesse strade di Torino, d’altra parte, alcuni ragazzi seduti su una panchina hanno scelto la parola “giovinezza” come nome del club che hanno appena fondato. Per darsi un tono, visto che sono studenti di liceo classico, hanno optato per una versione più latineggiante: col senno di poi, non una cattiva idea.

il Re fa Rullare i Tamburi

Il 6 gennaio 1898, finalmente, non ci sono intoppi: a Ponte Carrega si radunano 208 spettatori, la maggior parte dei quali ha pagato addirittura una lira per assistere al grande match, più un’altra lira per affittare un posto a sedere. Il Genoa affronta una selezione mista proveniente da Torino, composta da calciatori dell’Internazionale e della Torinese. Peccato che si siano presentati in dieci: i nostri eroi prestano loro cavallerescamente Ghigliotti, avversario per un giorno. L’allenatore dei torinesi è Edoardo Bosio, un altro dei pionieri del calcio italiano: commerciante di stoffe e fondatore del primo birrificio d’Italia, ha contratto la febbre del football in un lungo soggiorno a Nottingham. A bordo campo il tuttofare Fawcus svolge la funzione di segnalinee-cronometrista, anticipando inconsapevolmente di circa un secolo le mansioni del quarto uomo. Vincono 1-0 gli ospiti, trascinati dal loro uomo migliore, il capitano Gordon Savage, autore anche del gol decisivo. La cronaca della Gazzetta dello Sport testimonia che per lunghi tratti si è giocato secondo uno stile – diciamo così – tipicamente inglese: «Si può dire che la palla non toccava più terra rimbalzando da una testa a un piede a un petto per venti volte di seguito». Un altro stralcio di cronaca del “Caffaro”, pubblicazione genovese che tenne duro fino alla seconda guerra mondiale, testimonia gli impacci dei cronisti dell’epoca nel descrivere una partita di football: «Il giuoco piacque assai e gli spettatori presero vivissima parte a quel palleggiamento, in cui è tutta una ginnastica del corpo, e per cui è d’uopo possedere ottimi polmoni e gambe degne di un Bargossi». Nota a margine: Achille Bargossi era un podista di Forlì che fu pioniere delle corse su distanze lunghissime (anche 50 o 100 chilometri), soprannominato “l’uomo locomotiva” per le sue prodigiose doti di fondista.

 

Il 9 marzo si replica a campi invertiti, e il Genoa si prende la rivincita, vincendo per 1-0 con un gol dello svizzero Schaffhauser. Sono le premesse per il primo campionato ufficiale patrocinato dalla Federazione Italiana Football, che viene istituita in due sedute dai dirigenti genoani e torinesi. Il 26 marzo si decidono giorno, sede e squadre partecipanti: domenica 8 maggio 1898 al Velodromo Umberto I di Torino, nell’ambito dell’Esposizione Internazionale per i 50 anni dello Statuto Albertino, Internazionale Torino, Torinese, Società Ginnastica e Genoa si giocheranno il primo scudetto (si fa per dire: la parola “scudetto” entrerà nel lessico del calcio italiano solo nel 1924).

 

Dovendo essere già operativo alle 9 del mattino, il Genoa parte per Torino a notte fonda, in treno. Il viaggio lambisce appena il vertice più orientale del triangolo del football italiano: Milano, rimasta per il momento in disparte in questa storia perché in tutt’altre faccende affaccendata. Milano è l’epicentro delle proteste, diffuse in tutta Italia, contro il rincaro del prezzo del pane. Se la via Palestro di Genova era stata decisiva per le sorti dello sport più popolare d’Italia, sabato 7 maggio da via Palestro a  Milano è partito un corteo di giovani operai della Pirelli, fatto di ragazzi e ragazze, brutalmente stroncato dalla fanteria: sull’asfalto sono rimasti due corpi. L’8 maggio, mentre Torino celebra la festa del football, Milano precipita nel caos: incapace di gestire i tumulti, il generale Fiorenzo Bava Beccaris proclama lo stato d’assedio e ordina ripetutamente di cannoneggiare i manifestanti ad alzo zero, senza più fare distinzione tra rivoltosi e semplici cittadini inermi. Questa brillante iniziativa gli procurerà il futuro marchio dell’infamia ma anche i telegrammi di felicitazioni del Re Umberto I, che un mese dopo lo premierà con la medaglia d’oro al valor militare e un seggio al Senato. È una carneficina senza precedenti, le cui cifre sono ancora oggi avvolte nel mistero: il bilancio ufficiale parla di 80 morti e 450 feriti, ma c’è il fondato sospetto che le vittime siano state almeno trecento. Dalle cronache di Eugenio Torelli Viollier, direttore del Corriere della Sera: «In fondo a Viale Concordia ci sono le cascine Acquabella, ad un chilometro e mezzo: i contadini, udendo sparare, correvano alle loro case e cadevano sotto i colpi che partivano dal bastione. D’ altre parte i cittadini che rincasavano in via Vivaio erano fucilati. Due impiegati del Monte di Pietà che rincasavano, traversando i giardini pubblici, furono uccisi; ad un mio redattore, che faceva altrettanto, fu sparata una fucilata, ma per fortuna non lo colpì. Insomma una quarantina di persone innocenti furono così uccise nella città tranquillissima». Il sangue e il dolore, provocati dalla paura, si mischiano alla gioia di vivere rappresentata da una partita di pallone: la primavera del 1898 ci lascia in eredità anche i germi del nostro destino nazionale.

Il fotografo milanese Luca Comerio aveva solo diciannove anni nel maggio del 1898,

ma riuscì a immortalare la drammatica giornata dell’8 maggio in una serie di foto straordinarie.

A Torino il Genoa supera 2-1 in semifinale la Società Ginnastica, mentre l’Internazionale batte 1-0 la Torinese. Alle 15 va in scena la finale davanti a un centinaio di spettatori, per un incasso non disprezzabile di 197 lire. Genoa in campo con Baird, De Galleani, Ghigliotti, Pasteur, Spensley, Ghiglione, Le Pelley, Bertollo, Dapples, Bocciardo, Leaver, schierati con un 2-3-5 di ispirazione britannica (era il sistema ideato dal Blackburn dominatore del calcio inglese a fine secolo, che prospererà per un trentennio prima di essere pensionato dalla modifica della regola del fuorigioco). A referto una sola riserva, dal meraviglioso nome di Howard Passadoro, peraltro indisponibile perché impegnato in una regata di canottaggio insieme al fratello. I rossoblù non sono ancora tali, visto che indossano undici candide camicie bianche; tra le varie difficoltà devono anche affrontare quelle delle dimensioni del campo, quasi doppie rispetto a Ponte Carrega. Tra gli avversari dell’Internazionale Torino c’è anche un certo Herbert Kilpin, che un anno e mezzo dopo, in una nebbiosa notte di metà dicembre, fonderà in una fiaschetteria del centro di Milano l’Associazione Calcio Milan. Arbitra il signor Adolf Jourdan, titolare di un negozio d’abbigliamento, che spiega le regole: nessuna sostituzione, in caso di parità al 90′ si va avanti finché una delle due squadre non segna. Poi apre uno scatolone che contiene 44 paia di guanti bianchi, alla moda del calcio inglese, dove il vezzoso indumento serve a smascherare all’istante eventuali falli di mano; senza VAR, ci si arrangia come si può. I tempi regolamentari finiscono 1-1. Il Genoa è in dieci per l’infortunio del portiere Baird; ne prende il posto Spensley, e chi se no. Poi l’ala sinistra Norman Leaver segna il 2-1 della vittoria: è dunque questo, e non la rete di Pierluigi Orlandini in Italia-Portogallo Under 21 1994, il primo “golden goal” della storia del calcio italiano?

 

La premiazione viene celebrata da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, tenuto al riparo dal rumore dei cannoni. Ciascun giocatore riceve una medaglia d’oro in stile rococò. Queste medaglie, chiamate “targhette”, saranno il simbolo tangibile della vittoria. Sulla giornata regna un clima cordiale e conviviale, con allegro banchetto finale in cui i due capitani si scambiano complimenti e un tè collettivo qualche minuto dopo l’orario canonico delle 17.

La foto dei primi campioni d’Italia. Tuttora nessuno è riuscito ad attribuire un nome e cognome a ogni viso.

La vittoria del 1898 dà a Spensley lo slancio per proporre e vedersi accettare il cambio di denominazione in Genoa Cricket and Football Club, quando mancano ormai pochi mesi al Ventesimo Secolo. Il 1900 porterà al terzo scudetto consecutivo del Genoa, che si aggiudicherà dunque in via definitiva il trofeo messo in palio secondo gli stessi criteri della futura Coppa Rimet; ma anche al regicidio di Umberto I, freddato da tre colpi di rivoltella sparati dall’anarchico Gaetano Bresci, che intendeva vendicare gli eccidi di due anni prima.

 

Quanto a Spensley, ormai più genovese dei genovesi (tanto da meritarsi un secolo dopo una pagina sulla Wikipedia ligure), confermerà la sua natura di filantropo portando in Italia il movimento degli scout e arruolandosi come medico allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il suo verbo arriverà fino in Argentina, dove nel 1905 alcuni adolescenti di origine ligure fonderanno una loro squadra, decidendo che i colori sociali saranno quelli della bandiera della prima nave che avvisteranno dalla banchina del porto di Buenos Aires: passerà una nave svedese, e il Boca Juniors sarà per sempre giallo-blu. Il 25 settembre 1915, mentre sta soccorrendo un ferito sotto i fischi delle pallottole, rimane gravemente ferito in una battaglia nelle Fiandre. Sopravvive un mese e mezzo, prigioniero nella fortezza di Magonza, e muore il 10 novembre. Per novant’anni se ne cercano le spoglie e si diffondono false voci – una di queste, rilanciata dal Secolo XIX, sostiene che sia caduto nelle trincee di Gallipoli, in Turchia – finché nel 1992, a pochi mesi dal centenario, Franco Savelli e Mario Riggio, due scout che sono anche tifosi genoani, dopo mesi di ricerche si imbattono in una tomba al cimitero militare britannico di Niederzwehren, in Germania. Sulla lapide c’è scritto “JAMES RICHARDSON SPENSLEY”, e più non dimandare.

 

Anche se dedicherà il suo stadio a Luigi Ferraris, caduto come lui nell’estate del 1915, il filo rosso e blu che la lega a Spensley fa di Genova la città più inglese d’Italia. Nel 1992 – cinquecentesimo anno dalla scoperta dell’America – il Grifone (comparso nello stemma per la prima volta nel 1910) diventerà la prima squadra italiana a espugnare Anfield. Nella partita d’andata, disputata a Marassi, un gigantesco striscione sul settore distinti con su scritto WE ARE GENOA ricorderà ai giocatori del Liverpool le origini del calcio italiano. Anche il maggior cantore della genovesità, Fabrizio De André, un uomo che “avrebbe voluto scrivere una canzone d’amore al Genoa, ma era troppo coinvolto”, subirà il fascino della lingua inglese e della storia americana. Nascerà a mezzogiorno del 18 febbraio 1940, un giorno in cui – per l’ultima volta della sua storia – il Genoa è in testa alla serie A, ma solo fino alle tre del pomeriggio. Così il genoano De André è stato primo in classifica solo per tre ore della sua vita, le prime tre.